di
Franco Astengo
Rosa Luxenburg |
“Nell’evidente inadeguatezza dei modelli cui ci si è
ispirati nella globalizzazione del consumismo individualistico, la vicenda
dell’epidemia ci dimostra che siamo rimasti fermi a contemplare ciò che accade
senza disporre di idee e di organizzazione per attaccare, come sarebbe
necessario, il muro della separatezza tra i popoli e tra i ceti sociali.”
Mi era capitato di scrivere questa osservazione in precedenza
all’acutizzarsi della crisi dovuta all’emergenza sanitaria e mi permetto di
riproporla per rispondere all’esortazione con cui Marco Revelli conclude un suo
articolo pubblicato l’11 marzo dal “il Manifesto”: “Quando
tutto questo sarà finito, dovremo ripensare l’intero nostro universo di senso,
a cominciare dall’insostenibilità del dispositivo egemonico che sembrava fino a
ieri immortale. E per farlo servirà anche a noi un cambiamento radicale, di
sguardo, linguaggio, categorie e progetto”.
In entrambe le riflessioni fin qui citate emerge l’interrogativo
per un “dopo” che oggi appare del tutto aleatorio e incerto da definire, del
quale in questo momento non si intravedono tempi, modi, confini. Appare
quindi quasi pleonastico richiedere l’apertura di nuovi filoni di pensiero, di
ricerca, di iniziativa rispetto a quelli usati nel passato, muovendoci anche su
terreni trascurati, poco frequentati, posti ai margini del tipo di riflessione
che ha dominato l’epoca che è stata definita della globalizzazione.
Tutto questo appare assolutamente necessario quanto urgente.
Abbiamo più volte richiesto come fosse indispensabile per
consentirci di esprimere un pensiero adeguato all’oggi cercare un nuovo
intreccio fra le contraddizioni sociali e politiche definite come classiche e
quelle emergenti in una società nella quale andavano imponendosi fratture
giudicate, forse frettolosamente, come post-materialiste.
Sotto questo aspetto, dell’inedito tra gli intrecci nella moderna
complessità sociale, ci giunge in aiuto un altro riferimento contenuto nello
stesso numero del “Manifesto” dell’11 marzo: a pagina 10 del quotidiano,
infatti, è pubblicato un estratto di un intervento di Maria Rosa Cutrufelli
contenuto, nella sua interezza, nel numero che “Alternative per il Socialismo”
ha dedicato a Rosa Luxemburg nel centenario del suo assassinio perpetrato dalle
squadre speciali del governo di Weimar.
In questo testo si ritrovano due passaggi che vale la pena
riportare.
1) Il primo della stessa Luxemburg che scrive: “Mi sento molto più a
casa mia in un pezzetto di giardino come qui, oppure in un campo di calabroni e
l’erba che a un congresso di partito”;
2) L’altro passaggio riguarda una citazione di August Bebel, che
pure era considerato un “femminista”. A un certo punto Bebel afferma che Rosa
Luxemburg “era troppo donna e non abbastanza compagna di partito”. Un giudizio
al riguardo del quale Rosa replicava “non posso insegnarvi a restare umani”.
Rosa Luxenburg |
“Restare umani” il messaggio che può lanciarci ancora oggi quella
che il titolo dell’articolo definisce come “femminista riluttante”.
“Restare
Umani” come punto di partenza per quel mutamento di paradigma che è necessario
invocare in quello che sarà il post dell’esperienza che stiamo vivendo. Una
esperienza del tutto inedita anche per noi appartenenti alla generazione uscita
dalla guerra mondiale e che ha vissuto come totalizzante l’impegno sulla
specificità di una contraddizione che abbiamo sempre giudicato come
“principale” sulla linea di un progresso pensato come storicamente infinito.
Sul piano del pensiero un grande contributo potrà venirci dal
recupero di un’idea dell’articolazione di cui fa parte il pensiero femminista.
Pensiero femminista intesa come visione del mondo come sede di una
comunanza centrata sulla necessità di una non separatezza tra la teoria e la
nostra specifica soggettività, allargando la nostra capacità di riflessione
fuori dai dogmi della dottrina, cercando di mettere assieme libertà individuale
e modello sociale.
Intendiamoci bene: nessuna riduzione del pensiero
femminista al ritorno all’Arcadia o alla “decrescita felice”, nella piena
consapevolezza della decisiva importanza che quel pensiero ha e deve avere, sul
piano teorico, nella lotta allo sfruttamento.
Quella lotta allo sfruttamento che proprio nel pensiero femminista
si pone su di una molteplicità di piani, rispetto all’idea storicamente data
della “contraddizione principale”.
“Amore per il
mondo” ed “etica della cura” come sintesi della specificità del “femminismo
riluttante” di Rosa Luxemburg da intendersi come punti di paradigma per una
idea di progetto fondato sul massimo di eguaglianza possibile. Idea
di progetto di cui dovrebbe far parte anche una visione di forme originali di
democrazia di cui pure la stessa Luxemburg fu portatrice, nella logica dei suoi
tempi, esprimendo la sua critica rivoluzionaria.
Eguaglianza da realizzarsi in una società posta fuori dagli
sprechi derivanti da una produzione destinata esclusivamente ad un consumo
senza limiti.
Consumo di suolo, risorse, scienza, relazioni, che si sviluppa con
l’obiettivo dell’alimento per un meccanismo di indiscriminata accumulazione.
Un consumo ormai evidentemente insostenibile.
Ci potrà salvare soltanto il recupero di una politica praticata al
fine di rappresentare l’umano. Una politica fondata su di una base
di riflessione posta sull’insieme delle difficoltà di oggi e capace di
elaborare un progetto di sistema. “Restare
umani nella politica”, questa potrebbe essere il riassunto di una visione utile
a descrivere un futuro ancora possibile.