di
Alberto Deambrogio
È
difficile in frangenti come questi provare a individuare alcune linee di
tendenza significative, che aiutino a costruire un orientamento sociale e, si
spera, politico per quando il pericolo sanitario dato dal Covid-19 sarà
passato. Eppure bisogna tentare di farlo, magari sempre più collettivamente,
per preparare la stagione in cui l’#hashtag non potrà più essere #iostoacasa!,
ma possibilmente #iostofuorieciresto! Queste sono dunque considerazioni scritte
a caldo, senza pretesa di organicità e quindi come espressione di un
ragionamento work in progress. Alcuni
anni fa, più di dieci in realtà, la giornalista e militante Naomi Klein scrisse
un fortunato libro intitolato Shock
Economy. In quel testo l’idea centrale era costruita sul fatto che il
sistema economico dominante liberista è in grado di utilizzare grandi shock
(cambiamenti di regimi politici, catastrofi ecc.) per impiantare, sul piede di
una sorta di tabula rasa, nuove
politiche di privatizzazioni, tagli alla spesa sociale, riduzione dei diritti.
Si
è parlato molto in queste settimane, soprattutto in casa degli economisti, di
shock esterno portato al sistema dal Covid-19. Non so se sia davvero corretto
parlare di esternità del colpo, anche perché paiono ormai evidenti gli intrecci
tra economia/finanza e devastazione ambientale (non da ultimo causata anche da
una agricoltura sempre più industrializzata e avvelenante). Al netto di una
considerazione come questa, occorre dire che lo shock vi è stato e nell’immediato
è difficile dire che sconquassi trasmetterà nel tempo. Se vogliamo essere
aderenti all’analisi di Klein dobbiamo aspettarci nel percorso di assestamento
delle cose un salto ulteriore di qualità in politiche che abbiamo già visto
all’opera in questi anni nel nostro Paese, in Europa e altrove. Certo, fare
questo impone oggi e imporrà domani una capacità, da parte della governance capitalista, di aggiornare
istituzioni, misure economiche, produzione di egemonia, ruoli politici. La
botta è davvero forte, fa sbandare, si vedono persino segnali in controtendenza
in sede europea con proposte di abbandono temporaneo di alcuni dei fondamentali
religiosi (rapporto deficit/Pil, ma il debito accumulato andrà pagato? Come? Da
chi?). D’altro canto i riflessi pavloviani della presidentessa della BCE la
dicono lunga su cosa siano una cultura, un sistema, una radice costruiti ancor
prima che la Seconda guerra mondiale avesse termine. È, quella espressa da Lagarde,
la tipica indifferenza verso gli esiti sociali che è consustanziale all’ordoliberismo
e al capitalismo in generale.
Se
si dovesse innescare il secondo tempo della crisi che abbiamo conosciuto dal
2008, in ogni caso si aprirebbero davvero scenari inediti, che andrebbero
ricollocati dentro un orizzonte geopolitico preciso, con l’allentamento di
molti anelli della catena europea (con una Italia a rischio deflagrazione?) e
che dovrebbero interrogare anche intorno alle possibili soggettività in grado
di proporsi sul terreno del contrasto a progetti sempre più inumani.
Di
fronte alla cosiddetta “improvvisa diffusione” di Covid-19, seguendo più
dappresso le nostre vicende, quelle che quotidianamente cerchiamo di tenere
sott’occhio, pare utile indagare quel che succede in ambito sociale, il luogo
principale della presa di coscienza delle modalità di funzionamento del sistema
e dello sviluppo di potenziali inneschi di mobilitazione. È forse utile vedere
come questa crisi (niente affatto solo sanitaria) inizia a smuovere, con
modalità drammatiche e inopinate come ogni vera crisi, la palude stagnante di
un corpo sociale martirizzato da più di dieci anni di crisi, rimettendo in moto
poco alla volta i ragionamenti delle persone comuni, non tutte ormai
disponibili a mettere l’economia sopra tutto.
Intendiamoci:
queste prime reazioni sociali, vanno intese oggi quasi più come umori, faticose riprese di embrionali
ragionamenti; e però sono buon indice, a ben saper osservare, di alcune
generali consapevolezze.
Temi
come l’importanza della sanità insieme al suo stato critico attuale, il sempre
più inquietante clima neomalthusiano e socialdarwinista verso gli anziani e in
genere verso i malati più deboli in una parte ben definita della società (qui
servirebbe fermarsi un attimo ad approfondire la questione generazionale, per
capire cosa questa società riserva agli anziani, quelli ai cui risparmi si è
abbondantemente attinto come misura di ammortizzatore per attutire i morsi
della crisi); il tamponamento fragoroso tra una visione economicista (gli
scioperi spontanei in alcune fabbriche italiane sono segnale rivelatore sotto
molti punti di vista) e chi intende privilegiare vita e comunità (al netto, su
questa ultima, di svarioni ‘tricolori’); prime riflessioni, che acquistano
consistenza, su quale sia il modo di vivere che ci ha portati al disastro e
sull’arroganza occidentale (con campagne anticinesi via via sempre più
spuntate); la domanda di un nuovo intervento statale non solo in campo
economico ma più in generale (con possibili pericoli da non sottovalutare in
futuro, sia intorno alla sua interpretazione come “potere forte”, sia intorno a
semplicistiche ricette solo neokeynesiane); la distinzione, infine, che poggia
sui decisivi nodi della riproduzione sociale opposta alla riproduzione
sistemica capitalistica. Ognuno, in un suo personale percorso di autocoscienza
e di ricognizione sociale minima, può certo aggiungere molto altro.
Se
questa base provvisoria ha qualche validità, emerge con ogni evidenza uno
scostamento strategico, tanto più se la crisi non avrà un decorso breve:
l’individualizzazione del rischio, l’azienda come modello di soggettivazione,
la necessità per ognuno di diventare un perenne calcolatore di costi e benefici
per sé come capitale umano vedono scavati sotto di loro una voragine.
Da
un altro lato si affaccia, forse inaspettata in questi termini che non possono
che essere complicatissimi e drammatici, una idea di responsabilità comune. Ancora gli scioperi degli operai e delle
operaie di questi giorni sono esemplificativi non solo di una lotta per avere
rispettata la propria e l’altrui salute, ma anche come critica di una classe
imprenditoriale concentrata solo sull’utile economico.
Da
qui si può prendere spunto per una prima riflessione: se una ripresa di
conflittualità si potrà dare, non dovrà essere condizionata dall’economicismo,
ma dovrà tentare di essere da subito sociale e puntare possibilmente al
politico. Al presente è quasi impossibile preconizzare esiti intermedi e più
lontani di quella che si configura come una crisi vera della civiltà
capitalistico industriale. I problemi che il populismo ha affrontato in un suo
primo momento di protagonismo sono oggi gli stessi e sono forse aggravati, solo
che adesso non è più possibile affrontarli solo sul terreno politico (caste,
corrotti, meritevoli, ecc.), ormai in campo c’è il tema del funzionamento della
società e servono misure che ammortizzino gli effetti più disastrosi della
globalizzazione, misure che vengono applicate a livello nazionale, ma che sempre
più abbisognano di una organizzazione sovranazionale (anche chi si pone il
problema di lottare contro questi squassi ha il dovere di adire a quel livello:
sinora non ci si è proprio riusciti!). Che cosa ne sortirà? Sono certo
possibili paralisi sociali e addirittura, senza paura di esser catastrofisti, è
ipotizzabile pure una guerra di tutti contro tutti.
Se
noi invece vediamo uno spiraglio per una exit
più favorevole, dobbiamo lavorarci intensamente da ora. Il punto focale, anche
in prospettiva, rimane la possibilità di una presa d’atto da parte di ampi
settori del corpo sociale della crisi di riproduzione
sociale in atto: quali che siano le forme immediate in cui si darà, quasi
certamente confuse e contradditorie. Senza un passaggio siffatto non vedo chances di uscirne in avanti.
Il
punto dunque è come costruire soggettività alternativa in queste condizioni
date e non in astratto. Rimaniamo, al fine di sviluppare un ragionamento, alla
presa d’atto della condizione in cui versa il nostro sistema sanitario, della
sua importanza, dei suoi attuali limiti determinati da politiche decennali
passate, al ruolo svolto dai suoi operatori. A questi ultimi si è chiesto di
tributare a più riprese un doveroso omaggio: sacrosanto! Come però ha avuto
modo di ricordarmi recentemente la mia amica e compagna Erminia Emprin,
attenzione ad appuntare medaglie all’onore. Lo fecero anche con Vigili del
fuoco di NYC dopo l’11 settembre, archiviando molto velocemente le condizioni
che li costrinsero a quel “lavoro eroico”. Il miglior riconoscimento per chi
sta esercitando la sua professione in condizioni terribili, di guerra è stato
detto, è che quelle condizioni mutino radicalmente domani, anche in “condizioni
di pace”. Un anestesista ha sostenuto che abitualmente, normalmente, si lavora
in condizioni “di guerra”. È accettabile?
Molti
in questi giorni hanno ripreso i dati fondamentali che enucleano il perché
dello stato di crisi del Servizio Sanitario Nazionale. Dati puntuali, ripetuti
ormai allo sfinimento: tagli di posti letto, di medici e infermieri, strutture
obsolete, precariato, privato che invade…Tutto vero, qualcuno ha potuto dirlo
con qualche ragione in più visto che le battaglie giuste le ha condotte in
tempi non sospetti, spesso in minoranza anche dentro la società. Può bastare
questo richiamo battente, fatto con precisissimi dati, per recuperare ipso facto
una qualche mobilitazione degna di questo nome? Credo proprio di no.
Così
come ha poco senso, per restare sempre in campo sanitario, una procedura
soltanto burocratica di raccolta del consenso informato, o la comunicazione
fredda e numerica di una diagnosi complessa e magari infausta, anche nel nostro
caso serve una vera e propria “presa in cura” delle persone che si vogliono
coinvolgere. In queste ore concitate e terribili molti hanno visto come operano
medici e infermieri, ma si sono trovati materialmente in altre occasioni a fare
magari i conti con una domiciliarità inesistente, con una visita cancellata,
con presidi preventivi mancanti ecc. È da qui che occorre ripartire, dalle
storie da ascoltare e convogliare in una possibile messa a fattor comune, certo
magmatica e suscettibile di mille slittamenti (populistici, demagogici). Ai
cittadini e alle cittadine è stato chiesto a più riprese senso di
responsabilità e partecipazione. Il problema è che, fuori dalla chiamata
dall’alto, i luoghi dove elaborare
socialmente e per tempo quelle richieste non ci sono e non ci sono da molti
anni. Senza andare troppo indietro l’ultimo timido e parziale tentativo di
riportare un qualche livello di partecipazione in sanità si è avuto con le
consulte di partecipazione, al tempo della ministra Bindi; tentativo che ha
dato risultati miserrimi.
Questo
Paese ha peraltro avuto una grande sperimentazione in tema di partecipazione
democratica durante tutto il lungo ’68. Oggi, che avremmo un grande bisogno di
riferimenti culturali, di esempi e di pratiche, certo da utilizzare come
ispirazione e non meccanicamente fuori tempo massimo, quella memoria non c’è
più; e non a caso. La prassi liberista ha potuto infatti funzionare in
combinato disposto non solo con la sconfitta sul campo dell’alternativa, ma
persino con la cancellazione della sua memoria, come hanno recentemente
sottolineato tra gli altri Paolo Ferrero e Maurizio Lazzarato. Eppure non è
esistita esperienza politica e di movimento che non abbia saputo farsi
suggestionare da ispirazioni che vengono anche dal passato, dal simbolico. Chi
ha gli strumenti per farlo deve far di nuovo circolare quel tipo di cultura,
quella che ha espresso tra l’altro l’esperienza consiliare e, per molti versi
in questo caso ancor più “adattabile”, dei comitati di quartiere.
Non
si tratta qui, importante ripeterlo, di dire soltanto “facciamo come”. Si
tratta piuttosto di mettere a punto, attraverso un pensiero e una pratica
istituenti ma non dimentichi, una soggettività in grado di lottare per il
diritto alla salute (ma si può traslare in tutti gli altri campi di lotte dal
lavoro alla scuola, tanto per citare in via preliminare due settori messi
duramente sotto stress dalla crisi innescata da Covid-19), di farlo con
continuità, sviluppando autonomia, istituendo proprie autodiscipline
radicalmente democratiche, riflettendo su se stessa mentre lotta per correggere
se necessario, per accumulare forza, sapienza e capacità di costruzione su
risultati anche minimi.
Una comunità, insomma, che prende via via forma certa
nello spazio sociale e che, come si dice in Teologia della Liberazione, sappia bere al proprio pozzo, cioè sia un punto
di riferimento sicuro a cui tornare anche nei momenti di difficoltà che saranno
molteplici. È importante che soggettività siffatte si pensino e si costruiscano
da subito come larghe, non coinvolgano cioè solo un mero tessuto militante. Da
questo ultimo punto di vista occorre disporsi alla sperimentazione in
particolare per quanto riguarda due aspetti. Il primo è la necessità di provare
a superare distinzioni tra sindacato, partiti, movimenti. Il secondo è la
necessità invece di evitare qualsiasi tipo di inutile avanguardismo,
disponendosi semmai a esercitare ruoli catalitici (che fanno incontrare, che
fanno discutere, che traducono pazientemente linguaggi, che sanno motivare, che
mettono a disposizione esperienze e spezzoni di memorie).
I
medici, gli operatori, più volte richiamati in queste vicende devono poter
tornare a prendere parola in una dimensione che non sia solo quella
categoriale, a volte corporativa o sindacale.
Christine Lagarde |
Per un medico, per un’operatrice ‘sedersi in assemblea’ deve poter significare l’esercizio di un ruolo sociale pieno oltre la sua stretta competenza tecnica per riconnettere la propria esistenza professionale a un’idea di riproduzione sociale dove la salute non sia un costo e basta. Per altri versi va ripresa proprio con loro una discussione decisiva, emersa in queste settimane con modalità scomposte e a volte un poco inquietanti, sul nodo della non neutralità della scienza e della possibilità per i non esperti di esercitare una partecipazione che secondo Giulio A. Maccacaro “corre lungo la storia come un filo rosso, sempre negata in nome della tecnica”.
Ecco,
dunque, quale può forse essere, ad una prima superficialissima analisi, la
trama e l’ordito di un soggetto che si insinua negli spiragli aperti da questa
tumultuosa vicenda che stiamo vivendo, per provare a dire che a casa non si
torna quando finalmente si è usciti fuori. Una soggettività ampia, sicuramente
complessa e di difficile costruzione e gestione, ma che ha ben chiaro che fino
a quando la salute è implicata con la produzione per la produzione (di valore e
non di soddisfacimento di bisogni in un equilibrio vero con la natura) non ci
sarà vero diritto esigibile, cura e soprattutto prevenzione.
Questa
consapevolezza ognuno la potrà sviluppare portando la sua storia; già oggi
quelle storie, al di là di sistematizzazioni teoriche, fanno smuovere meningi
verso il giusto sospetto, la prima, incompleta, giusta critica.
I
‘Sem Terra’, longevo e interessante movimento brasiliano che si batte per la
riforma agraria contro il latifondo e per un’agricoltura sostenibile, hanno
avuto in un periodo della loro attività di lotta l’idea di costruire
accampamenti di fortuna, con semplici pali e teli di plastica, lungo le strade
vicine alle terre da “conquistare” con le loro azioni. Era chiara la simbologia
a tutti quelli che sarebbero passati lungo quelle arterie: qui c’è una comunità
in lotta contro il latifondo, per vivere del proprio lavoro! Ecco, sarebbe
simbolicamente rilevante che anche le nuove soggettività in lotta per la salute
raccogliessero un’ispirazione da quell’esempio. Qualcosa (non si metta limite
alla creatività e alle possibilità di sperimentazione) che si impianti a ridosso dei luoghi per la
salute (ospedali, ambulatori, consultori ecc.), che segnali una comunità in lotta,
una presenza che si vuole e si materializza come costante e plurale, un
soggetto per molti versi imprevisto per
utilizzare liberamente la felice espressione di Carla Lonzi.
Boris Johnson |
Se come molti iniziano a pensare, la situazione non si risolverà tanto in fretta, e anzi si estenderà a tutto l’Occidente con forti effetti geopolitici, lo stagno in cui viviamo verrà inevitabilmente scosso. Provare a pensare oggi per domani a come non restare a guardare o, peggio, a farci affascinare dalle dinamiche tremende del rapporto classi dirigenti/media è quanto mai necessario, anche nella inevitabile insicurezza che ci circonda. E d’altro canto oggi più che mai occorre stare con Fortini: “nulla è sicuro, ma scrivi”.