di
Patrizia Cecconi
L'Istituto Forlanini di Roma (foto di Martina Sapienza) |
Roma:
la vicenda del Forlanini
Vi
voglio raccontare una storia, alla fine capirete il perché. Se non avete voglia
di leggerla andate direttamente alla fine dove troverete la richiesta di una
firma poi, forse, tornerete indietro. C’era una volta a Roma, costruito a
120 metri s.l.m. sotto il Gianicolo e sopra Trastevere, in una zona allora
piena di verde, un magnifico ospedale. Era bello anche architettonicamente,
ricco di sale con magnifici pavimenti e ampie vetrate, oltre che di stanze per
i malati con veranda esposta al sole e poi giardini e giardinetti con alberi ad
alto fusto che miglioravano la qualità dell’aria, già considerata buona
all’epoca della sua costruzione. Era destinato alla cura delle malattie polmonari.
Era l’ospedale Forlanini. Un’eccellenza sacrificata agli F35 e non solo. Chi
scrive ha esperienze dirette di quell’ospedale. Dirette e ottime, al contrario
di altre strutture sanitarie come, ad esempio, un altro ospedale romano in cui
fu praticamente ucciso, o se volete “lasciato morire” in modo assolutamente
disumano il proprio padre come raccontò anche un importante quotidiano (La
Repubblica) come caso “ordinario” di malasanità.
Ma
parliamo del Forlanini. Ai tempi in cui si affermava “Medicina democratica”,
tempi antropologicamente lontani più di quanto non lo siano gli anni
effettivamente trascorsi da allora ad oggi, mi trovai a frequentare
quell’ospedale perché un familiare fu ricoverato lì per cancro ai polmoni. Ero
molto giovane allora, avevo una ventina d’anni e seguivo all’Università dei
seminari sulle strutture chiuse quindi, quando scoprii che un nucleo di medici
e psicologi aveva dato vita insieme ai pazienti a laboratori teatrali
interni all’ospedale, a circoli di lettura ed altre simili iniziative che
restituivano ai pazienti quella dignità umana che spesso si perde diventando
solo il paziente numero x, pensai che finalmente Psichiatria democratica,
Medicina democratica e tutto quel che di democratico nel significato pieno e
nobile del termine si affermava allora avrebbe avuto la capacità di cambiare
davvero in meglio l’Italia. Erano gli anni ’70, quelli che vengono ricordati
sempre come anni di piombo e mai, purtroppo, come anni di vera crescita
culturale e sociale.
Molte
cose nate in quegli anni col tempo sono rimaste parole ripetute a vuoto, ma
allora non era così. Per esempio il primario del reparto in cui era stato
ricoverato il mio congiunto, era uno che gratuitamente si recava a
far visita ai malati terminali, dimessi su richiesta dei famigliari affinché
morissero in casa, e la sua visita aiutava la famiglia in quelle ore di
angoscia in attesa della morte imminente e forniva indicazioni capaci di
alleviare il dolore fisico del malato e contestualmente di sostenere
psicologicamente lui e chi gli era vicino.
Circa
dieci anni dopo ebbi un’altra esperienza in quell’ospedale. Vi sembrerà
incredibile ma fu un’esperienza divertente, addirittura bella, tanto da farmi
pensare ad alcune scene del film “Una breve vacanza” con una superba
Florinda Bolkan come protagonista. Stavolta la paziente era mia
madre. Mia madre era una donna di ferro, aveva una capacità anormale di
resistere a tutto e questo ne faceva una sorta di colonna alla quale tutti
potevano appoggiarsi e trovare sostegno. Ma questo significava anche dar poco
spazio a se stessa e quando un giorno, a causa di una tosse micidiale la che
tormentava da anni e di cui non si conosceva l’origine, fu ricoverata per
ricerche al Forlanini, si trovo affidata a una dottoressa si prese cura di lei
dicendole esattamente queste parole: “Signora lei da qui non uscirà finché
non le avremo tolto questo tormento. Mi prenderò cura direttamente io di
studiare il suo caso e sarò a sua completa disposizione”. Poi fu
mandata in una stanza con altre 4 donne.
Mia
madre era molto scettica ed era convinta che avrebbe passato qualche giorno
deprimente in quello che una volta era il “sanatorio di Roma”. La confortava
solo il fatto che i tanti giardini con panchine in cui sedersi per
chiacchierare o leggere le avrebbero dato un minimo di piacere. Perché una cosa
su cui pochi riflettono ma che per fortuna da qualcuno, per esempio Gino
Strada, è molto ben considerata è la bellezza come aspetto collaterale
della cura. Ma non immaginava, mia madre, che quel suo mese di ricovero in
ospedale per ricerche sul suo ormai pluriennale tossire senza causa,
sarebbe stata una vera vacanza insieme a una decina di altre donne, alcune
giovanissime, alcune adulte e altre anziane tra le quali c’erano anche malate
terminali che per una strana alchimia sociale erano diventate amiche e
passavano la maggior parte delle ore di sole in giardino, ordinando pizze e
bibite attraverso le inferriate anche nelle ore di chiusura al pubblico e
divertendosi come fossero ragazzine scapestrate raccontandosi le loro storie di
vita.
Panoramica del complesso ospedaliero |
In
questo modo hanno accompagnato con dolcezza e perfino allegria una di loro di
soli trent’anni che stava chiudendo la sua vita, piangendo poi a dirotto per il
dolore di averla perduta. Le pazienti dimesse tornavano a trovare le altre
portando dolci sia per il personale sanitario che per le amiche ancora
ricoverate e insieme tornavano in giardino a chiacchierare, ridere, qualche
volta piangere quando si scopriva che un’altra di loro non ce l’avrebbe
fatta.
Quando
mia madre uscì dal Forlanini fu una parziale sconfitta per la dottoressa che
l’aveva presa in cura perché la causa della sua tosse non riuscì a trovarla e
riuscì solo a ridurne l’intensità. Ma per mia madre quel periodo in ospedale
restò sempre come il ricordo di una vacanza. Quello era l’ospedale
Forlanini, un’eccellenza la cui chiusura nel 2015 fu considerata dal prof.
Massimo Martelli primario in quell’ospedale, “un peccato mortale”.
Si
disse che chiudere il Forlanini avrebbe comportato il risparmio di 13
milioni l’anno. Questo non voglio neanche metterlo in dubbio, ma anche evitare
di mangiare porterebbe il risparmio di una bella cifra mensile per chi facesse
questa scelta. Il problema è solo nel chiedersi a quali conseguenze
portano scelte simili, ovviamente prendendo in considerazione le ricadute
sulla collettività.
Se
il problema fosse solo quello di risparmiare, si potrebbe fare il confronto col
costo di un solo F35 e scoprire che equivale più o meno a dieci anni di vita
del Forlanini. Ma mentre lo F35, se non utilizzato è solo una scelta
politica (che grava comunque sulla società) e se utilizzato porta la morte, il
Forlanini se non utilizzato si degraderà fino ad essere acquistato da qualche
privato che ne farà magari una SPA, mentre se utilizzato porterebbe ad innalzare
la speranza di vita di migliaia di persone avendo ben 3.000 posti letto
che in questo periodo, sotto l’incubo della Covid19, arriverebbero come manna
dal cielo.
Possibile
che in nome del “senso di responsabilità”, nuova formula chiave per far accettare
ogni limitazione della libertà personale, anche se giusta sul piano
sanitario, escludendo al momento altre letture sul piano sociale, non si riesce
a fare i conti con l’importanza delle strutture sanitarie pubbliche che vanno
potenziate e non demolite? Gli ospedali di Milano denunciano la scarsità
degli strumenti nelle sale di rianimazione e questo costringe i medici a un
doloroso triage sulle persone da intubare e alle quali
applicare la ventilazione artificiale.
Possibile
che non si faccia il conto di quanti strumenti di ventilazione sanitaria
(che è un salvavita) potrebbero essere acquistati al costo di un solo
F35 e mi limito a questo?
Possibile
che solo cercando col lanternino si riescono a scovare articoli che ricordano
che in dieci anni, in nome del virus mondiale del neo-liberismo, sono
stati tagliati 37 miliardi alla sanità pubblica con perdita di 70 mila
posti letto e chiusura di 359 reparti in vari ospedali tra cui il Forlanini?
Tutto
questo bene o male si sa e allora viene spontaneo chiedersi perché mai non
si proceda immediatamente all’acquisto di strumenti salvavita che, al
momento sono importanti almeno quanto il tentativo di fermare il contagio e non
hanno costi proibitivi?
Non
è questo il momento di attaccare il governo per le sue scelte anche se non
condivise, questo lo lasciamo fare agli sciacalli di mestiere, ma possiamo
lanciare una petizione affinché si distolgano immediatamente fondi dal
settore militare per destinarli all’emergenza sanitaria e salvare davvero
quelle centinaia di vite che seppur cariche di anni potrebbero concludersi in
altro modo e non per mancanza di strumenti per contrastare l’effetto del virus.
Intanto
invitiamo a dare un segnale firmando la petizione per riaprire l’ospedale Carlo
Forlanini, il “sanatorio di Roma” che porta il nome del medico al quale si deve
- tra le altre - la scoperta del “pneumotorace artificiale” che guarì migliaia
e migliaia di tubercolotici quasi cinquant’anni prima che Fleming
scoprisse la penicillina. Di petizioni ne sono state lanciate diverse,
alcune anche da chi, per scelta di partito, tende a privatizzare tutto il
privatizzabile, ma noi vi proponiamo di firmare questa http://chng.it/PPyFnwCVwG con la speranza che
tra i tanti danni che sta producendo, diretti o indotti, il nuovo coronavirus
possa anche portare consapevolezza circa un’inversione di rotta a favore del
bene comune.